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«Nell'arte non c'è democrazia, anche se c'è uguaglianza tra chi partecipa all'opera: nel dialogo continuo che avviene nel corso della preparazione di uno spettacolo, ciascuno influisce sugli altri e ne viene a sua volta sollecitato. Ma spetta al regista decidere» sostiene Giovanni Moleri, formatosi come regista alla scuola di Grotowski, e fondatore e animatore del Teatro dell'Aleph. L'opera che porta avanti coi suoi collaboratori spinge un passo più avanti l'esperienza del “teatro laboratorio”, innestandovi le potenzialità narrative insite nell'opera di prosa “classica”: così indaga e manifesta quel nesso inscindibile tra sacralità e creatività che per natura è insito nell'essere umano. Il caso dell'opera “I Karamazov”.
Il tuo è un metodo di lavoro che scava contemporaneamente nella personalità degli attori e dei personaggi, degli autori da cui provengono le suggestioni testuali e dei fatti storici: come nasce dunque l'opera?
C'è un'intuizione di fondo: è il punto di partenza. Prendo a esempio una produzione recente, “I Karamazov”: nel momento iniziale confluisce l'idea generale dell'opera del grande Autore russo, rivissuta attraverso concreti personaggi da lui elaborati, nei Fratelli Karamazov. Lo scopo è arrivare a esprimere in modo sintetico e chiaro chi era Dostoevskij, quali i drammi che raffigurava, quale il rapporto tra questi e la vicenda cristiana, quale, soprattutto la sua vitalità oggi, la sua capacità di parlare a ognuno di noi.
Quindi non ti metti al tavolino, a scrivere....
No, l'intuizione germinale va vissuta. Come sempre, ho chiesto agli attori di elaborare del materiale e di portarmelo. A questo punto ognuno cerca nella sua cultura, nella storia, dentro di sé la verità del momento: secondo il suo estro, la sua ispirazione.
Così Elena ha studiato tre figure col suo stesso nome: Elena di Troia, s. Elena, Helene Weigel di Brecht. E ha portato una breve caratterizzazione drammatica da quelle ricavata.
Diego ha lavorato sull'Ulisse e ne ha tratto la sua interpretazione.
Salvatore ha approfondito il Che Guevara e ne ha ricavato una sua rappresentazione.
Tutti personaggi di grande rilevanza, ma non collegati a Dostoevsij...
Servono per cominciare a lavorare: sono proposte che si mettono sul tappeto: sono segni, sintagmi, si potrebbe dire geroglifici che vanno decodificati perché ognuno di essi è portatore di significato. Serviranno per comporre un discorso che a questo punto ancora non si conosce. Ma l'ipotesi di spettacolo già offre un germe di forma. Tuttavia, innanzi tutto, si tratta di uscire dai pregiudizi: altrimenti non c'è ricerca della verità.
I pregiudizi sono i personaggi precostituiti...
Certo: le immagini di Ulisse, di Elena, del Che sono necessariamente stereotipate: contaminazioni di quanto di loro si sa e si pratica da tempo. Bisogna destrutturarli e ricavarne qualcosa di essenziale che sta “sotto la maschera” e che possa poi essere ricomposto in quanto latore di significato nel quadro della nuova opere che dovrà nascere: ma che ancora non conosciamo. La vita è misteriosa e queste tessere di mosaico dovranno essere portate a vivere. Fino a qui sono solo tessere. Abbiamo svolto una prima fase di raccolta di materiale....
La seconda fase ha un nome?
È la ricomposizione delle parti in un tutto semantico: qui comincia il varo lavoro. I segni saranno chiamati a divenire significanti attraverso un'opera di ri-conoscimento: una nuova appropriazione. Bisogna “conoscere di nuovo”: non fermarsi al livello del dato, a quel che la quotidianità suggerisce. Bisogna passare a un livello più elevato. Qui li regista comincia a muoversi un po' come un antropologo. Si tratta di trovare l'umano che è vero per la comunità e per la persona. Il teatro di oggi non è quello dell'800, quando il romanticismo portava a una visione naturalistica delle cose, dei fenomeni, delle vicende. Oggi bisogna scavare nella verità interiore nel contesto della semantica contemporanea. Per questo Strehler passava ore, giorni, settimane a indagare i segni, i personaggi, i modi di essere: uno studio propriamente antropologico. L'obiettivo è intendere il modo in cui si esprimono i comportamenti nella contemporaneità per trovare una loro risignificazinoe coerente col fine che si persegue.
Il che è lavoro del regista e non dell'attore...
Infatti: sono due mestieri diversi. All'attore spetta di elaborare la presenza scenica: deve arrivare a essere convincente per quel che rappresenta. L'attore ha la propria umanità e la trasferisce nel personaggio, ed è fondamentale che questo sia vivo, che esprima un “fuoco vitale”. È diverso da quel che diceva Stanislavskij riguardo alla “riviviscienza”: questa implica artificio, ovvero identificazione tra l'attore e il personaggio che incarna. No: per me essenziale è che il materiale sia vivo: già sia autentico nella presentazione germinale che l'attore porta sin da prima che si passi alla composizione dell'opera. Poi a me, quale regista, spetta di ristrutturarlo.
E come si dipana il dialogo tra regista e attore a questo punto?
Io mi metto al servizio dell'attore, l'attore si mette al mio servizio: tutti siamo al servizio dell'opera che dovrà nascere. Non c'è impostazione ideologica, che implicherebbe ridurre il lavoro teatrale a un fine precostituito, pre-impacchettato: l'opera deve nascere da questa dinamica aperta. Non c'è opera già scritta: anche quella di un autore, già messa in forma di copione, va riscritta ex novo. Solo così prende vita nello spazio scenico: grazie all'azione cui partecipano tutti gli elementi, grazie a una consapevolezza generale. Oggetti e personaggi e spazio scenico e affettività e leggi della geometria: tutto è materiale che diventa significato.
Gli oggetti diventano simboli?
No: il simbolo ha un significato chiaro e stabilito entro il suo campo semantico. La croce è un simbolo: ben chiaro e definito. L'oggetto sulla scena ha una sua storia propria e una sua propria evoluzione nel contesto della scena stessa: ha un'eloquenza che lo rende più simile a un personaggio che a un simbolo. Ha un valore semantico che racconta una storia, all'interno della storia stessa.
Quindi alla fine, col vostro teatro, raccontate delle storie...
Anni addietro abbiamo lavorato sul tema della narrazione. Il problema si presentava nella forma di bombardare lo spettatore con colpi di scena: è il metodo di Strehler. C'è, di fronte a questo, l'approccio di Grotowski, consistente nel lavorare sulle emozioni che si risvegliano nello spettatore. Noi cerchiamo di unire i due approcci: teatro sperimentale e teatro di prosa.
Penso che la funzione del regista sia in questo simile a quella del direttore d'orchestra: ogni strumento (l'attore ma anche l'oggetto) ha il proprio carattere e acquisisce un senso nel contesto della coralità dell'opera e tale carattere è soggetto a evolversi con l'evolversi della narrazione.
E lo spettatore?
Ecco: lo spettatore è chiamato a essere il vero interprete dell'opera. Ovvero a interpretarla secondo la propria sensibilità. Del resto questo è quanto accade con ogni opera d'arte: contiene messaggi e significati che acquisiscono un senso agli occhi del singolo spettatore che li fruisce nella misura in cui li comprende attraverso l'interpretazione che lui stesso ne dà. Un singolo spettacolo in realtà contiene diverse potenzialità interpretative. E anche una quantità di spettacoli diversi: il testo, la messa in scena, il team che l'ha costruito, lo scenografo. E tutto questo fornisce diversi livelli di lettura. Lo spettatore li acquisisce secondo la sua sensibilità.
L'opera che componete, essendo viva, evolve. Si arriva a una forma conclusiva o è sempre passibile di modifiche?
Si arriva a una forma definitiva. E tale resta. L'evoluzione dello spettacolo avviene prima della messa in scena. Penso all'opera su Edith Stein che abbiamo realizzato tempo addietro: abbiamo studiato i suoi testi, la sua vita, l'autobiografia. È stato un lungo processo collettivo, cresciuto proprio come un organismo, che si sviluppa sino a giungere alla maturità. Così siamo arrivati ad avere il testo definitivo, che include ampie citazioni dei testi della stessa Stein. Il teatro non è che una rappresentazione della vita e del mondo. Anche nella vita e nel mondo ci sono attori e registi, che interpretano le proprie storie, vivendole... perseguono finalità, ma in fondo non conoscono come finirà l'opera. Nel teatro questo divenire aperto si manifesta nel processo di creazione dell'opera. Poi, una volta completato questo, resta la sua rappresentazione: a quel punto si sa come va a finire....
I Karamazov - Teatro dell'Aleph
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