Il punto di vista dell'altro

IL PUNTO DI VISTA DELL'ALTRO

Intervista a Julia Varley

attrice dell'Odin Teatret e promotrice del Magdalena Project

di Leonardo Servadio




Dalle esperienze di Grotowski al gruppo dell'Odin Teatret. Julia Varley discute se e in che misura il teatro sia ragione e occasione di crescita per chi lo pratica, per chi ne segue gli spettacoli, per l'intorno sociale con cui si pone in dialogo. L'importanza in quest'ambito del “Magdalena Project” che coinvolge donne impegnate nel teatro.



A che cosa, ma soprattutto a chi serve il teatro oggi? Parlando con voi teatranti alle volte si ha l'impressione che anzitutto il teatro risponda a vostre esigenze e vostri desideri, qualcosa che vi aiuta a livello personale... Anche nell'approccio di Jerzy Grotowski  sembra che forse si possa ravvisare qualcosa del genere, con tutta la sua attenzione sulla condizione dell'attore, fisica e mentale. Come se il teatro fosse una specie di terapia o di sistema di crescita per chi lo pratica...


«Se parla delle ultime esperienze di Grotowski, alla fine della sua carriera, forse si può comprendere che abbia un'impressione di questo tipo. Perché a un certo punto egli abbandonò l'attività teatrale propriamente detta per dedicarsi alla preparazione della “persona che agisce”. Ma nella compagnia nella quale lavoro qui in Danimarca, l'Odin Teatret, dove in passato è stata seguita la lezione di Grotowski, abbiamo sempre continuato a fare teatro, e diamo molta importanza all'attore, ma soprattutto allo spettacolo. Comunque il teatro richiede attore e spettatore, l'uno e l'altro, in una relazione inscindibile. Senza l'uno, non c'è l'altro.

«L'aspetto cruciale è riuscire a creare nuove esperienze attraverso il dialogo che si attiva nel teatro tra tutti i suoi componenti: la scena, il parlato, l'azione, il pubblico... Qui a Holstebro, dove ha sede Odin Teatret, il legame con la popolazione è molto sentito. Vi sono persone di mezza età che ricordano i personaggi nelle parate che inscenammo in strada quando loro erano bambini. Molti sono cresciuti assistendo ai nostri spettacoli. Il teatro qui è parte dell'identità della città. Capita anche in altre parti del mondo che alcuni spettatori vengano a salutarci dopo le rappresentazioni e, commossi, riferiscano che tale è stato l'impatto del lavoro, da sentirsi cambiati.

«Ma naturalmente questo è anche dovuto al fatto che il nostro teatro opera in un un ambiente relativamente intimo, dove possono prendere posto 100, 120 spettatori. Gli spettacoli riflettono anche problemi molto sentiti nella cittadina di Holstebro...».


Questo implica un rapporto simbiotico, un teatro molto caratterizzato come espressione della realtà sociale locale...


«Be', ma i problemi sociali, per quanto si manifestino in luoghi concreti, sono anche universali. Noi portiamo i nostri spettacoli in giro nel mondo: dall'Ucraina all'Italia, dall'Uruguay alla Spagna... Ovunque lo spettatore può trovarvi riflessa una parte di sé stesso, anche se magari in modi un poco differenti gli uni dagli altri. Il teatro è caratterizzato dalla relazione viva, sensibile, immediata che si genera tra attore e spettatore. Bastano due persone, e può nascere questo spettacolo. Che è diverso da qualsiasi altra forma di spettacolo o di dialogo, sia televisivo, filmico, via Web. Nel teatro spettatore e attore condividono lo stesso spazio, c'è prossimità fisica e quindi immediatezza emotiva. E questo è un aspetto fondamentale, che non si ritrova in alcuna condizione diversa».


Ma, in quanto momento esperienziale, l'efficacia del teatro dipende anche dalla misura in cui uno spettatore sia preparato o recettivo...


«Senza dubbio, tuttavia si attua sempre un dialogo, che può essere più o meno profondo, più o meno efficace. Anche in spettatori che non sono abituati a frequentare le platee. Recentemente ho incontrato un impiegato di banca che, dopo lo spettacolo, mi raccontava di come questo gli avesse fatto scoprire una parte di sé che non conosceva. Sono esperienze che è difficile descrivere, o analizzare in astratto. Molti si commuovono durante lo spettacolo e non sanno spiegarsi perché. Il testo in sé comunica, a diversi livelli. La tonalità della voce ha un potere comunicativo, come il gesto dell'attore. Ma, al di là delle tante diverse parti che compongono l'insieme, si constata il manifestarsi di qualcosa che potremmo chiamare un'energia che coinvolge assieme attori e spettatori, trasportando entrambi in una realtà che, nel momento del suo farsi in forma artistica, ha un grado di concretezza maggiore di quella della realtà fattuale. Dal punto di vista della realtà di tutti i giorni, è un fatto non comprensibile».


Come componete le opere che rappresentate, dove reperite i materiali, come li elaborate?


«Di solito le opere nascono da un'elaborazione interna, in cui si riflettono problemi peraltro generali. Per esempio “La vita cronica” è nato in collaborazione con una poetessa. Il tema riguarda la nostra situazione in quanto compagnia teatrale, ma anche la realtà di Holstebro dove si soffre il problema dell'immigrazione: constatiamo che in Danimarca c'è un rigetto verso chi arriva da lontano. Un altro tema che si intreccia con questi è quello della guerra: la si potrebbe considerare estranea a una pacifica cittadina danese. Ma non lo è, qui abbiamo un'importante caserma militare da dove partono molti soldati per le missioni estere, e a volte tornano morti. Ci sono le loro donne, i loro figli, il loro dolore... Un'altra storia che si somma alle precedenti riguarda un ragazzo colombiano che giunge in Europa alla ricerca del padre. Sono materiali reperiti nell'esperienza delle persone che compongono lo spettacolo. Ma questi problemi sono esclusivi di un luogo, o solo di alcuni e non di altri? Evidentemente no. In noi e attorno a noi troviamo il materiale: vivo, sofferto, partecipato. Ma è ben comprensibile anche da altri, in modo magari diverso. La decodificazione non richiede l'identità di punti di vista, ma la comprensione dei problemi che sono rappresentati, a partire dal proprio punto di vista».


In un suo scritto, dove racconta la storia del Magdalena Project, la rete di donne teatranti di cui fa parte, lei ripete molte volte la parola “solidarietà”. In quest'epoca votata alla competizione di tutti contro tutti, sembra quasi strana, riflesso di epoche passate... Perché è così presente in lei il richiamo alla solidarietà?


«Questo deriva dalla mia esperienza di lavoro di gruppo. Sentirsi parte di un insieme, pensare, partecipare, impegnarsi in un gruppo comporta la capacità di condivisione, e un atteggiamento solidale. La solidarietà nel gruppo non diminuisce l'importanza dell'individuo, anzi lo rafforza, poiché col contributo di ognuno l'insieme è più forte. Nella rete internazionale Magdalena si ritrova un impegno condiviso volto a un concreto agire: e la solidarietà unisce. Anche ove vi siano opinioni diverse. Invece di finire nella logica della contrapposizione (“io di qua, tu di là, io ho ragione tu hai torto”), la solidarietà porta al reciproco arricchimento, alla comprensione di punti di vista diversi. Il teatro privilegia i rapporti personali, lo stare vicini e il condividere obiettivi: il non sentirsi isolati. In questo l'esperienza teatrale è effettivamente molto lontana da quel che si vive spesso in altri ambienti, siano la scuola o gli ospedali, dove la persona è spesso ridotta a numero, a singolarità isolata. Invece, là dove hanno presa le ideologie, avvengono le divisioni: l'abbiamo visto nel recente passato. La solidarietà recupera l'umanità che è comune e favorisce la condivisione».


Parlando di ideologie il pensiero corre alla politica. Ma non è anche il teatro una forma di azione politica?


«Lo è, nel senso dell'essere presenti nella “polis”, la città, ovvero la comunità. Il teatro ha la capacità di smuovere relazioni che altrimenti si scleorizzano in ruoli fissi. Per esempio, nella nostra città ci sono immigrati cingalesi, che tendono a trovarsi tra di loro, chiudendosi in un ambiente che può restare isolato. Il teatro può creare un ambiente che facilita la comunicazione, fornendo uno spazio di socialità che sta al di sopra delle barriere nazionali, persino linguistiche. Può portare alla luce e attraverso la comunicazione risolvere problemi sotterranei che magari colpiscono molti ma di cui nessuno parla esplicitamente.

«A Holstebro si svolgono regolarmente settimane di festa, durante le quali si tengono spettacoli nei quali tra l'altro coinvolgiamo persone di religioni diverse: il teatro diventa luogo di dialogo. Allo stesso modo permettiamo a militari a pacifisti, a poliziotti e studenti di esibirsi assieme. E con lo stesso approccio i recenti immigrati e i cittadini sospettosi cominciano a interagire in modo amichevole. È un modo nuovo di fare politica.

«Cerchiamo di collaborare con chi non sta dalla parte “vincente”: non al fine di proporre rivendicazioni, ma di gettare ponti, di allacciare dialoghi e aprire nuove prospettive. Per esempio, quando in Cile dominava Pinochet tenevamo i nostri spettacoli nelle chiese, gli unici posti dove si potevano svolgere manifestazioni pubbliche. Allo stesso tempo in Argentina, dove la Chiesa stava dalla parte del regime militare, collaboravamo con piccole comunità di quartiere. In ogni situazione si trovano persone con cui condividere un impegno».


Ma il fatto che Magdalena Project sia solo di donne e per le donne, non implica un separarsi, un chiudersi in una solidarietà di genere, e quindi parziale... e quindi neppure tanto solidale?


«Tutti i movimenti che hanno cercato una propria autonomia, soprattutto quando sono nati in ambienti non totalmente favorevoli, all'inizio hanno cercato di separarsi per acquisire forza, per trovare meglio la propria identità. È stato così per esempio, per il movimento dei diritti civili dei neri statunitensi. Poi, quando il movimento acquisisce la propria fisionomia, questa chiusura perde di significato. Questo è avvenuto per Magdalena Project. All'inizio, nel 1986, è stato necessario rafforzare i legami tra noi donne di teatro e per esser riconosciute per le nostre capacità di attrici, registe, scenografe. Poi il gruppo si è rafforzato, i tempi sono cambiati. Ora vi sono molti uomini che collaborano. E ci troviamo di fronte a una nuova generazione di donne e uomini di teatro. Abbiamo un grande responsabilità verso di loro. Per un teatro che sempre meglio sappia essere strumento di dialogo tra chi fa teatro e la società nel suo complesso».


In Italia sembra essere riemerso il problema della violenza di genere. È stato coniato il neologismo “femminicidio”, riscontra anche lei una nuova ostilità verso le donne?


«Credo che in questo periodo vi sia un ritorno di violenza contro le donne. Questo potrebbe essere conseguenza del fatto che le donne hanno acquisito maggiore autonomia e conquistato ruoli più importanti. Un fatto che a molti uomini può dare fastidio, perché mete in discussione quel che ritenevano essere alcune loro prerogative. Allora invece di accogliere e gestire i cambiamenti, reagiscono con la violenza.

«Anche nella civilissima Danimarca abbiamo avuto problemi in tal senso. A Holstebro  è stata aperta una “Casa di Crisi” dove possono rifugiarsi le donne che subiscono violenze».


A fronte di problemi di questo genere, può il teatro avere una funzione terapeutica?


«Non credo possa arrivare a tanto. Ma certo può rendere più facile la comprensione del punto di vista di chi riconosciamo come “altro da noi”. Nella nostra città abbiamo svolto un lavoro con la Casa di Crisi, al quale hanno partecipato donne e uomini. È un inizio, un dialogo che dovrà continuare...».