Il Teatro come esperienza

IL TEATRO COME ESPERIENZA

di Adriana Mariani




Un cammino per gradi diversi: le rappresentazioni non sono mera riproposizione di testi altrui mandati a memoria, bensì un inoltrarsi nelle profondità dell'essere, in un esercizio di autoconoscenza e di autocoscienza. Dalla danza all'esplorazione di archetipi, anche se abusati, quali quello della “strega”, nelle sue molteplici declinazioni. Alla scuola del Teatro dell'Aleph, l'arte scenica si pone non come intrattenimento, ma come veicolo di crescita culturale e di maturazione personale, per gli attori e per il pubblico.

 


Il teatro al femminile: un tema sicuramente ampio e per certi versi così complesso che potrebbe essere un compito arduo argomentarne le situazioni, la storia, i passaggi, ecc. I temi da svolgere sarebbero tanti e tali e, per quanto ne so, già ampiamente discussi e trattati, che potrebbe essere improbabile aggiungere qualcosa di nuovo. L'unica via di salvezza potrebbe essere quella di rapportare l'argomento alla mia, seppur frammentata, esperienza personale, con massima naturalezza e semplicità sperando che la cosa quanto meno susciti curiosità.

Il primo incontro con il teatro è stato nel 1993 con un breve corso di tre giorni tenuto al Teatro dell'Aleph di Bellusco. Vidi un manifesto pubblicitario (allora non esisteva Internet) in biblioteca e mi iscrissi. Purtroppo, dopo aver frequentato il corso e appreso i primi interessanti concetti, non diedi alcun seguito all'approfondimento della materia, restando semplicemente con questa "leggera infarinatura”.

Solo qualche anno dopo, nel 1998, partecipando alla S.I.T. Scuola Interculturale di Teatro, ho iniziato a frequentare con continuità lo spazio e l'universo del Teatro dell'Aleph.

I primi approcci, sotto la guida di Lucia Pia Usuelli, sono stati, diciamo così, proprio “al femminile”:

Le prime posizioni della danza classica, i primi passi facili del Flamenco, per poi passare a quelli più difficili delle danze orientali (Mohiniattam e Khatak).

Nel frattempo la partecipazione a seminari e piccole interpretazioni negli spettacoli di teatro di strada hanno contribuito a darmi quelle indicazioni e quella fondamentale “visione” del teatro priva di qualsiasi banale, stereotipata forma che caratterizza la maggior parte delle rappresentazioni dei nostri giorni, e la consapevolezza che il teatro non è costituito solo da attori che recitano un testo per un pubblico, ma anche da elementi che esaltano l'importanza delle forme, dei corpi, delle voci e quindi l'insieme della rappresentazione.

Ritenevo molto importanti i training, che allora ci venivano mostrati quali esempi, delle attrici dell'Odin Teatret di Eugenio Barba: con costanza e un rigido addestramento, riuscivano a muoversi sul palcoscenico in maniera davvero inusuale e stimolante.

La stessa cosa, anche se in modo diverso, hanno fatto le attrici del Teatro dell'Aleph, interpretando spettacoli totalmente “al femminile” come ad esempio quello delle Danze Sacre.

Il seminario tenuto da Giovanni Moleri, direttore artistico dell'Aleph, nel dicembre 1999, dava esaurienti spiegazioni, sia sull'interpretazione dello spettacolo, sia sulla parte antropologica ad esso collegata.

Lo spettacolo, eseguito da tre danzatrici, rievoca le danze sacre di Gazelle, una donna francese appartenente alla Comunità dell’Arca, fondata da Lanza del Vasto.  Ella inventò una forma di danza  iconografica per esprimere il senso culturale e religioso del popolo cristiano.

La danza sacra inizia da sé stessi, da un sondaggio delle proprie energie, del proprio sé, e del proprio sé nell'altro. È quindi fondamentale per la danzatrice la consapevolezza della propria individualità per arrivare alla percezione di sé stessa e far poi rifluire questa energia nell'altro.

La danza, la cui radice è localizzata sulla punta del piede, è pronta a far balzare il corpo femminile verso l'alto; la colonna vertebrale, che può essere considerata come la sede della dignità umana, lavora proprio a questo scopo.

Il corpo della danzatrice diventa l'albero, il mezzo di trasmissione da cui il “demone” discende per incontrare l'umano.

Questa specie di scarto tra l'attore e il trascendente, crea una sproporzione che dovrebbe portare a una forma di remissione, facendo compiere azioni di riverenza, di controllo di sé, che si ottiene reprimendo i lati negativi e facendo uscire il meglio dalla propria individualità (immedesimazione ed estraniamento).

L'attrice, che a volte si immedesima e a volte si discosta dal personaggio che rappresenta, prende un atteggiamento di rispetto dell'interpretazione, facendo spesso diventare la danza un'osservazione di sé medesima, ma vista da fuori. In quei movimenti c'è la sua stessa umanità e, anche considerando che una parte è puramente iconografica, non c'è dubbio che attraverso il suo corpo essa esprima qualcosa che, partendo dalle sue profondità, ci porta verso l'alto, in una tensione verso la spiritualità del nostro essere

L'esperienza delle Danze Sacre, che purtroppo non ho sperimentato personalmente ma a cui ho assistito più volte, è uno dei modi più coinvolgenti di “utilizzo”, se così si può dire, del corpo in quanto a leggerezza e coordinazione che esaltano, senza incidere in alcun modo sul pudore, le forme aggraziate e armoniose del corpo femminile.

Così come una danzatrice sembra una dea, visualizzando nell'immaginario collettivo la purezza e la bontà, allo stesso modo quello che potrebbe essere definito il suo esatto contrario o il suo alter ego, è la figura della Strega: losca, brutale, cattiva.

La prima volta che ho avuto a che fare con le Streghe è stato nel primo “Solstizio d'Estate”, spettacolo teatrale del repertorio del Teatro dell'Aleph, in cui vi è la scena di un sabba, messo in scena a San Giovanni Marignano nel giugno 1999.

Non conoscevo gli spettacoli di strada, allora veramente rari, e fu davvero la scoperta di un mondo tanto coinvolgente quanto emozionante e di grande impatto. Lo spettacolo presenta scene che rivivono gli antichi riti del solstizio d'estate e che propongono situazioni collegate a credenze popolari e ad altri rituali propiziatori con uno strano connubio tra sacro e profano.

È qui che la figura della “Strega” si attualizza nella sua forma più completa e prende il sopravvento per evolversi in un contesto scenografico davvero mozzafiato.

Questo personaggio dalle molteplici potenzialità è stato studiato, scandagliato, sviscerato dal Teatro dell'Aleph non solo durante le prove di questo spettacolo ma anche in occasione di  seminari, laboratori e conferenze, diventando uno tra i personaggi più volte messo in scena nei suoi spettacoli.

Le improvvisazioni eseguite dagli attori e le numerose e diverse modifiche, aggiunte, variazioni apportate dal regista Giovanni Moleri durante la messa in scena, o da Lucia nella fasi di ricerca, comprovano quanto questo personaggio sia poliedrico e sempre in evoluzione permettendo ogni volta di migliorare e ampliare i quadri dello spettacolo a seconda della situazione, dell'ubicazione e, perché no, anche del budget a disposizione, con l'aggiunta di più oggetti scenici e l'allestimento di particolari e sempre nuovi effetti pirici e scenografici.

Innumerevoli testi sono stati scritti, trattati, discussi sulle streghe e sull'immaginario relativo al mondo che le circonda e non è il caso di ripetersi, voglio invece soffermarmi sul fatto che l'interpretazione della “Strega” è, proprio per questa sua poliedricità, uno dei ruoli che mi hanno dato maggiore soddisfazione a livello personale.

Questo personaggio, di per sé brutto e poco amato dal pubblico (rievoca eventi criminosi quali fatture, incantesimi, torture, roghi...), interpretato seguendo le indicazioni, i criteri di training e i suggerimenti dati dal regista che ne antevede l'effetto finale, riesce nello spettacolo a non rappresentare l'ormai troppo consumato e ridondante contorno coreografico, ma a essere ogni volta valorizzato come nuovo elemento costruttivo dello spettacolo stesso.

La strega rappresenta infatti un vasto “campo di lavoro” in ambito teatrale, e dà la possibilità di spaziare da semplici training di “sondaggio” a improvvisazioni più mirate. Ce ne dava esempi Lucia nelle prime prove, quando uno dei temi di improvvisazione fu quello di muoversi come un gorilla dal corpo pesante che poggia verso il basso e ti fa piegare le gambe ma che allo stesso tempo dispone di straordinaria agilità che ti porta anche a saltare e ballare, ottenendo l'effetto desiderato per un sabba attorno ad un pentolone.

Certo tutto questo richiede un notevole sforzo fisico che non sempre, specie con il passare degli anni, si riesce ad affrontare impassibilmente... ma il ruolo della “Strega” affascina e coinvolge in modo viscerale, creando la possibilità di movimenti che, se supportati da adeguata preparazione, diventano facilmente eseguibili in quanto dettati più dall'istinto che da una sequenza precisamente memorizzata ed eseguibile all'unisono con altri attori.

Questa preparazione mi ha molto aiutato quando mi si è presentata l'occasione di interpretare la serva/nutrice nel dramma di Medea con il Teatro dell'Es di Stefano Bernini.

Ho conosciuto Stefano Bernini durante un seminario al Teatro dell'Aleph tenuto da Rena Mirecka, una delle attrici storiche del famoso Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski.  Alla conclusione del seminario, Stefano mi propose di lavorare assieme a un nuovo spettacolo. Accettai entusiasticamente la proposta, più per curiosità che per consapevolezza delle mie reali capacità d'attrice (sono portata a una costante sottovalutazione di me stessa) rendendomi conto solo più avanti dei numerosi sacrifici che avrebbe comportato questa decisione.

Cimentarsi in un lavoro teatrale significa dedicargli tempo, tutto il tempo possibile: farlo crescere ogni volta che lo metti in scena o che lo provi, adeguarsi velocemente alle modifiche apportate dal regista e molte altre cose difficili per chi, svolgendo durante la giornata un altro lavoro e dedicando al teatro solo le ore serali, non riesce molte volte, per stanchezza o altri motivi, ad avere la necessaria concentrazione mentale e fisica.

Allora mi venivano in mente le parole di Giovanni Moleri che, a ragione, considera attore solo chi dedica completamente il suo tempo al lavoro in teatro, facendolo diventare in maniera esclusiva il proprio lavoro. Io infatti fino a quel momento avevo interpretato solo ruoli corali, non avevo mai affrontato le difficoltà di un personaggio completo.

È stato molto faticoso seguire le rigide ma necessarie regole imposte da Bernini nella realizzazione dello spettacolo ma alla fine gli sforzi sono stati premiati: lo spettacolo “Medea tra noi” ha infatti vinto il premio della rassegna “Ewiva 2003” patrocinata dal Comune di Milano ed è stato rappresentato per due anni in vari teatri milanesi e della provincia.

Nello specifico lo spettacolo prendeva spunto dal testo di Franz Grillparzer, nel quale viene esaltata  la trasformazione di Medea da principessa originaria della selvaggia Colchide a maga dai poteri sovrannaturali. Si rappresentava una donna che, struggendosi per il tradimento del suo uomo, Giasone, si perde, si confonde e, invocando i propri poteri arcani, prende da essi la forza per realizzare i suoi più terribili propositi di vendetta. Così il dramma si compie: dapprima uccide i suoi figli poi mette in atto il gesto ancora più doloroso e tragico del suicidio.

Per tutto lo spettacolo affiancavo Medea (la brava Wilma Minuti) come Lissa, la sua nutrice che non smette di consigliarla, nutrirla, coccolarla come un'ombra benigna che l'assiste, che non riesce però, neanche con preghiere e danze propiziatorie a evitare la tragedia finale.

Medea rievoca quella che è la più ancestrale delle Maghe che trae i suoi poteri dalla terra, che cerca alleanza nelle belve della notte e che invoca i demoni più malvagi per ottenere la sua vendetta (farà avere infatti alla nuova moglie di Giasone un regalo avvelenato che provoca la morte, non solo sua, ma di tutta la corte).

Il ruolo di Lissa era molto importante e la preoccupazione primaria del regista è sempre stata quella di creare fra me e Wilma, che non ci conoscevamo per nulla, quell'affiatamento e quella complicità che dovevano essere propri anche nello spettacolo. Questo per evitare al massimo quella che poteva essere mera finzione scenica, ma per far sì che il nostro comportamento fosse invece “quasi normale”. Il lavoro svolto tendeva ad avvicinare le due donne e a fare in modo che i ruoli, così dettagliatamente definiti, a volte si confondessero e, così come anche in Medea si percepiva un po' della serva, anche in Lissa si riscontrava qualche attitudine al sovrannaturale.  Ad esempio in una scena dove, con una danza propiziatoria la nutrice dovrebbe scongiurare le intenzioni malefiche di Medea, Lissa diventa un corpo primitivo ondeggiante e barcollante che, pur trasfigurato, ricorda le streghe del Solstizio d'Estate.

Abbiamo lavorato per un anno circa per costruire le scene con gli elementi primari: terra (un cumulo di terriccio era al centro del palcoscenico), acqua (in diverse brocche e bacinelle che venivano travasate a seconda dell'utilizzo previsto) e fuoco (accensione di vari fuochi utilizzati sia scenograficamente, sia come vera e propria unica fonte luminosa.

Un discorso a parte andrebbe fatto per ciò che concerne luci e musiche, studiate nei più piccoli dettagli.

Un'esperienza totalmente diversa, per quanto riguarda il tipo di allenamento e i contenuti teatrali, è stata quella avuta per tre anni (1996/1998) con la scuola di teatro del regista Durshan Savino Delizia, improntata sull'allestimento di spettacoli di autori contemporanei come Tennesse Williams,  Harold Pinter, ecc.

In questo caso la preparazione era improntata, per la maggior parte, più su un lavoro collettivo che su quello singolo, lasciando forse meno spazio a ciò che poteva essere la gestione personale dell'interpretazione, anche se questa era continuamente stimolata dal regista.

Gli esercizi che in quegli anni erano l'innovazione, espressione di un nuovo modo di essere in scena, oggi sono ampiamente diffusi e pressoché uguali in tutte le scuole di teatro.

L'ho riscontrato personalmente frequentando, anche se solo per poche settimane, altre due o tre

scuole successivamente. Quello con Durshan e con la sua collaboratrice Carmen Chimienti, è stato senz'altro un addestramento importante che mi ha fatto conoscere un'altra faccia di quest'arte, forse più ampiamente diffusa fra il pubblico che frequenta oggigiorno i teatri.

In somma, l'esperienza avuta finora mi ha dimostrato quanto sia possibile costruire con un'opera teatrale qualcosa di più vero e profondo, eliminando quelle (che purtroppo ancora oggi si riscontrano in numerose compagnie e gruppi non solo amatoriali) forme dilettantistiche, pressapochiste e quella marginalità caratteristici di chi vede ancora il teatro come una rappresentazione da inscenare ripetendo un testo memorizzato, con gestualità mimiche, ridondanti e tipiche di chi non ha null'altro da esprimere se non una personale esibizione. Portando queste esperienze a un piccolo gruppo amatoriale infatti, mi sono resa conto di quanto sia ancora diffusa la visione del teatro solo come forma di svago o divertimento e non come una  manifestazione culturale e formativa.

Per continuare ad acquisire questi valori, ritengo che la frequentazione del Teatro dell'Aleph sia stata fondamentale e, dopo ormai più di venti anni, non credo possa più interrompersi.



Adriana Mariani dirige la compagnia amatoriale “L’Acquario” di Lesmo (Monza-Brianza).