Credere: presenze della memoria

Credere: presenze della memoria


Teresa Ralli "Antigona" 

foto di Elsa Estremadoiro

Vestita di bianco, con un capello colorato in testa, Teresa Ralli del gruppo di teatro Yuyachkani, si addentra nel labirinto. La seguiamo. Ci accompagna il suono dei flauti e dei tamburi della musica andina. Siamo a Lima in Perù.   

I compagni del suo gruppo suonano dall’esterno, i loro visi coperti da enormi copricapo di piume. Ognuno di noi ha in mano dei rami di fiori che depositiamo man mano lungo il percorso. Siamo le partecipanti ad un incontro Magdalena organizzato dalle quattro attrici di Yuyachkani, Ana Correa, Débora Correa, Rebeca Ralli e Teresa Ralli con l’aiuto di Milagros Quintana e Socorro Naveda. Siamo una sessantina di donne e qualche uomo. Percorriamo un labirinto di pietre al cui centro si trova “L’occhio che piange”, una scultura di Lika Mutal a forma di occhio da cui sgorga un rivolo ininterrotto di acqua. Il labirinto si trova in un parco al centro di Lima. È una delle tante iniziative in onore alla memoria.


Entrando il mio sguardo si fissa verso il basso: accanto al tracciato dove cammino ci sono centinaia di migliaia di pietre appoggiate ordinatamente una accanto all’altra, leggermente sovrapposte. C’è una pietra per ogni morto vittima della guerra fra l’esercito peruviano e Sendero Luminoso, durata più di vent’anni e finita nel 2000. Alcune pietre hanno inciso il nome di una persona, l’età e l’anno in cui sono morti, altre pietre sono mute, in attesa di ricevere un nome. Con lo sguardo abbassato continuo a camminare attanagliata dall’angoscia e da un senso di impotenza. Penso al giorno in cui, qualche mese prima, camminavo per i campi vicino a Phnom Pen dove, assieme alle ossa umane, la terra fa riapparire i vestiti delle migliaia e migliaia di cambogiani eliminati dai Khmer Rouge. Che fare? Che dire? Sembra che non ci sia risposta alle perversioni della storia umana che sa solo ripetersi. Come combattere questo male comune che affratella paesi così distanti fra loro?


Davanti a me Teresa avanza, mi seguono le altre donne che partecipano all’incontro Magdalena “Mujeres creadoras”. La musica andina ci ispira una scansione comune. Il percorso è lungo e tortuoso. Lo percorriamo piano, in silenzio, con un ritmo dettato da pensieri pesanti. Dopo circa quaranta minuti arrivo alla scultura nel centro, all’occhio che piange. Lo scruto a lungo, cercando di capire. Per uscire rifacciamo lo stesso percorso. Ora le pietre lungo il tracciato sono sistemate all’inverso e non si possono più leggere le iscrizioni. Il mio sguardo si alza automaticamente verso l’alto, la testa si solleva, il mio corpo si raddrizza e riprende energia. Il ritmo dei miei passi aumenta. La distanza da percorrere e il semplice obbligo di mettere un piede davanti all’altro, di dover proseguire per raggiungere l’uscita, cambiano l’atteggiamento del mio corpo. Ricomincio a guardare intorno a me, a pensare al futuro. Ecco cosa possiamo e dobbiamo fare: persistere a camminare. È questa ininterrotta sequela di passi che decide.


Fare teatro con l’Odin Teatret mi ha permesso di sentire ancora viva in me la militanza politica della mia gioventù. Magdalena Project colora tutto questo di femminile, dando a noi donne il compito di guidare la marcia. Non credo nella necessità del teatro, ma nelle possibilità che offre.

Il potenziale del teatro mi si rivela nell’obbligo della relazione sociale, nell’opportunità di sovvertire le norme senza andare contro le leggi, nell’unione di immaginazione e realtà, e nell’ostinazione a continuare lungo il proprio percorso segnato da necessità personali. Con lo spettacolo Il gusto delle arance, con Gabriella Sacco, di cui ho curato la regia, il teatro mi ha offerto un terreno d’incontro con poetesse mistiche, spesso menzionate da studiose femministe. Erano delle ribelli, rifiutavano l’ortodossia, inseguivano un cammino rischioso, quando, con disciplina e abbandonandosi in preghiera, realizzavano una relazione particolare con l’altro che era per loro il divino in terra. Mi riconosco in loro, anche se la mia ribellione stabilisce un incontro con l’altro che chiamo spettatore e con altre che sono le mie colleghe. 


Creare Il gusto delle arance e dare corpo teatrale alle parole delle poetesse mistiche scelte da Gabriella, che si definisce devota, è stata una sfida. Tutta la mia esperienza è legata alla presenza della persona in quanto corpo, materia. Ho cominciato a fare teatro per sentirmi unita e intera, per essere – attraverso l’azione – un tutt’uno di pensiero e movimento, di muscoli e sentimenti, sensazioni e immaginazione. Cos’è, allora, per me la trascendenza? Alla fine dello spettacolo Gabriella, l’attrice, rimane sola. Seduta ad un tavolino, beve di fronte ad un seggio vuoto a cui rivolge un segno di saluto. Il fuoco che creava l’ombra di una persona si è dissipato. Torna il buio. Dopo l’intensità delle parole, della passione e del lavoro, rimane la solitudine. È così? Oppure questa solitudine è accompagnata da tutti gli altri incontrati o da incontrare, imbevuta del vissuto e del passato, pronta e disponibile? È una solitudine che, con tranquillità e pace della mente, quiete e saggezza, ci dà speranze per continuare a vivere? Oppure è il segno amaro, rinchiuso e spento della fine?


In un vecchio pulmino percorro le infinite pianure argentine in viaggio da Buenos Aires a Paysandú, in Uruguay. Per passare il tempo chiacchiero con gli organizzatori che mi hanno invitato. Chiedo: “Perché fate teatro? Come avete cominciato?” Sono curiosa di sapere quali sono le motivazioni che li spingono a continuare in condizioni così difficili. Ognuno di loro lavora di giorno per guadagnare da vivere per sé e le loro famiglie, eppure si ritrovano regolarmente ogni sera al teatro per provare e presentare spettacoli. Vivono in una cittadina di provincia: molti chilometri li separano dai centri della cultura e dell’arte, dalla possibilità di ricevere informazioni, dalle librerie, da altri gruppi come il loro. Marcelo mi risponde: “È una bella domanda… non so. Ho visto uno spettacolo e poi mi sono messo a fare teatro anch’io. È come innamorarsi. È la necessità di un rituale. Il teatro è magico.”


Rituale, magia… Sono cresciuta in Italia. Appena arrivata a tre anni, i miei genitori mi hanno mandato ad un asilo francese di suore, probabilmente per imparare la lingua. Mi tolsero di lì appena si accorsero che cominciavo a mettere fiori davanti all’immagine della Madonna. Non rammento cosa mi spingeva a questo tipo di dedizione. Mi chiedevo dove l’universo, se era infinito, trovasse lo spazio, e cosa c’era dall’altra parte del muro se, invece, l’universo aveva un limite. A dieci anni capitava che accompagnassi le mie amiche in chiesa la domenica. Mi sentivo imbarazzata: ignoravo il momento in cui dovevo mettermi in piedi o seduta, non conoscevo i testi delle preghiere, ero infastidita dalla pomposità dei vestiti e del latino. Assistetti anche a due funerali. Rimane in me la rabbia profonda che mi provocò il discorso del prete che incoraggiava ad essere felici – proprio così, essere felici! – perché Dio aveva chiamato a sé un bambino morto di polmonite e una mia compagna di classe morta in un incidente automobilistico. Al liceo ero esentata dall’ora di religione: mi consideravano protestante per la mia origine inglese. In realtà mio padre mi portò una volta sola alla chiesa anglicana a Milano, per il giorno dei papaveri e dei carols, i canti di Natale. All’uscita, il pastore ci dette fiori di carta da mettere all’asola dei vestiti e ci strinse la mano. Percepii l’imbarazzo di mio padre che dovette confessare di non essere un frequentatore abituale delle messe.


 








Il gusto delle arance mi ha presentato la sfida professionale di passare dalle poesie composte di parole in cui c’è un io che crede, ma senza dramma, a un’azione drammatica che potesse interessare lo spettatore con la stessa sostanza di una storia. Dovevo interpretare la tensione mistica verso l’altro che non ha corpo con le tensioni reali del corpo dell’attrice. L’impeto ideale di chi si sposa in sogno, di chi si rivolge al Signore invisibile come all’amante, doveva esistere in scena tramite tensioni, opposizioni e reazioni fisiche udibili e visibili in modo da provocare visioni allo spettatore. Dovevo conquistare lo spettatore con un corpo dell’altro che non c’è, con una storia che non c’è, con parole di poesie che si riferiscono a un amore ideale, in cui la carne non è vera carne.


Da adolescente, impegnata politicamente e con la sicurezza che solo la gioventù possiede, mi sembrava impossibile comunicare con qualcuno che credesse in Dio. Ancora oggi mi sorprendo nel vedere persone che si fanno il segno della croce entrando in chiesa, partendo in aereo, attraversando un ponte, ascoltando una notizia drammatica, facendo un gol, o che si inginocchiano su un tappetino in mezzo alla strada in una direzione precisa. Sono, per me, segni distanti. Mi sento straniera in chiesa, in una moschea, in un tempio. È lo stesso quando assisto a cerimonie del Candomblé, la religione afro brasiliana, anche se mi interessano le rappresentazioni dei loro Orixá come forze della natura che si manifestano in una varietà di danze ed energie, in pietre che crescono, in simboli che mi colpiscono. Capisco la necessità di rituali che ci uniscono attorno ai passaggi fondamentali della vita, sono consapevole della necessità sociale di avere un centro e un luogo d’incontro, conosco il bisogno di disciplina e di norme, intendo l’esigenza di sperare che qualcuno più forte di noi possa risolvere i nostri problemi. Ma non per questo credo.


Credere, in teatro, è una problematica tecnica e concreta. Lo spettatore dovrebbe percepire la realtà e la rappresentazione come un’esperienza che contiene una verità personale a cui può relazionarsi. Credere o non credere all’attrice è un modo per esprimere un giudizio essenziale sulla qualità o l’efficacia dell’interpretazione. L’attrice è totalmente presente in quello che fa ed ha la capacità di trasmetterlo in modo organico per lo spettatore: crea empatia. Nonostante la sua esperienza limitata come attrice, Gabriella crea empatia in me come regista. Le credo, in scena. Come regista, ho usato tutto quello che so per correggere ritmi, sincronizzazioni, impulsi, tonalità, spostamenti, per evocare immagini nelle sue azioni e montarle per provocare letture divergenti. Ma, in fondo, conta solo se accetto il suo modo di essere presente in scena, se diventa “bella e diversa” ai miei occhi, se si muta nel mio alter-ego che scopre la mia stessa vulnerabile intimità attraverso quello che lei mi dice della sua. È una realtà concreta, che tocco con mano attraverso gli occhi, l’udito, l’odorato, il senso cenestetico, e – quando l’attrice mi offre un succo d’arancio che ha spremuto durante lo spettacolo – il gusto. Il gusto delle arance mi fa assaporare la concretezza dell’esperienza mistica delle poetesse che Gabriella ha scelto.


La spremitura delle arance è apparsa perché cercavo un’attività pratica per accompagnare la recitazione delle poesie con azioni fisiche. Ho pensato al rituale del tè giapponese ed ho ricordato uno spettacolo del Festival Magdalena ’94 in cui dei limoni apparivano da un mucchio di terra marrone in un contrasto di colori e consistenza. Il rituale del tè, come quello delle arance, era un contenitore senza significati intrinseci che restaurava la ripetizione precisa, uguale e semplice di azioni necessarie. L’idea del rituale delle arance era casuale, se riferita al senso, eppure precisa e necessaria, se riferita alla concretezza delle azioni reali sulla scena.


Anni fa, un’amica mi fece un massaggio guaritore. Il mio collo rotolava fra le sue mani, mentre rispondevo alle sue domande. Ad un certo punto ricordai un incidente: una tavola non fissata del palco mi aveva colpito al petto. Era successo in un periodo piuttosto infelice della mia vita. Avevo completamente dimenticato l’episodio, ma le cellule del mio corpo si erano passate l’informazione del trauma. Le mie cellule ricordavano più di me. Rimasi ancora più convinta che dovevo avere fiducia nell’intelligenza del mio corpo che pensa da solo. Credo nella storia e nelle storie, nell’intuizione e in alcune persone. Credo nel senso che il lavoro che faccio ha per me. Credo nell’impegno per lo sviluppo della rete del Magdalena Project e nella qualità che l’Odin Teatret esige sempre da me. Credo nella necessità di continuare a camminare, lasciando segni lungo il cammino.


Ero seduta in un cerchio durante un incontro improvvisato nel tempo libero dal programma ufficiale di “Mujeres creadoras” in Perù. Una trentina di giovani attrici e attori ascoltavano le mie risposte alle loro domande. Mi chiedevano di tecnica, di politica, di senso, per immaginare quale cammino li attendesse. Abbiamo lavorato con la voce per cercare assieme alcune risposte. Mi hanno chiesto perché io continuo a fare teatro dopo tanti anni nello stesso gruppo, l’Odin Teatret. Dentro di me, in un angolino nascosto, ho ripensato a come, pochi giorni prima, leggendo un’introduzione ad un’edizione brasiliana di saggi di Bertolt Brecht, ho intuito che per salvaguardare la memoria del gruppo e del suo regista Eugenio Barba, ho bisogno di una presenza che garantisca autorevolezza a quello che faccio. Se Eugenio non fosse più all’Odin, per un motivo o per un altro, dove potrei rimanere accanto alla sua visione e assumere la sua eredità senza la sua presenza? Forse proprio in compagnia delle donne con cui ho condiviso l’inizio e il percorso del Magdalena Project. Ma non l’ho detto. Invece ho spiegato che all’inizio, volendo risolvere la mia divisione fra lo studio di storia e filosofia e la pratica dello sport, il mio ideale era raggiungere un’unità del mio essere. Per questo avevo scelto il teatro.  Ma parlando e osservando i visi delle giovani attorno a me, vedendo le loro reazioni, ad un tratto ho capito che invece il mio ideale era essere divisa. Volevo che il mio essere potesse dividersi per esistere in questi altri che mi guardavano e mi ascoltavano.


Credo nell’energia, nella cenere che fertilizza la terra, nella conoscenza che passa di generazione in generazione trasformandosi, nella storia che trascina tutta l’esperienza umana, nelle storie che fanno vivere le persone e il loro operato nella nostra memoria, nei sentimenti che ci legano al di là della presenza fisica, nelle cellule del mio corpo che pensano e sognano, nelle donne che creano la loro storia di teatro, nella trascendenza del mio mestiere quando riesce ad avere un senso che permane dopo la fine dello spettacolo. Non credo nell’aldilà, ma nell’al di qua: essere unita e divisa al tempo stesso. Il mio al di qua sono le altre e gli altri: quelli venuti prima di me, quelli attorno a me, e quelli che seguiranno. Gli spettacoli e i festival continueranno a ripetere i loro rituali profani per dire qualcosa che ignoriamo perfino noi che l’abbiamo creati e fatti crescere. Sono presenze della memoria: segni lungo il cammino.