La Donna e il Teatro

LA DONNA E IL TEATRO. Le vie dell'emancipazione.

Intervista con Claudio Bernardi

docente di Storia del Teatro, Università Cattolica di Milano

di Leonardo Servadio




 La liberazione del teatro e dei teatranti dalle pastoie e dalle strumentalizzazioni del potere vanno di pari passo con quella della donna nella società. Ne sono un segno e un simbolo. Dall'antica Grecia alla Roma imperiale all'Europa del medioevo... Saranno il Cristianesimo, e la figura di Maria, spiega Claudio Bernardi, docente di Storia del Teatro, Università Cattolica di Milano, a innestare il lungo processo di maturazione culturale che sboccia nella cultura cultura contemporanea occidentale, in cui la parità è un dato universalmente riconosciuto.



In teatro si raccontano tante storie di donne, da Antigone a Madre Coraggio, dalla Colombina goldoniana alla Nora di Ibsen: si tratta di figure idealizzate, si riferiscono a un “universale” femminile, oppure sono il riflesso di una condizione contingente?


La tendenza è di leggere le opere teatrali slegate dai contesti. Bisognerebbe invece compiere sempre il collegamento tra il teatro in atto e le specifiche condizioni culturali e sociali delle donne. Anche quando l’opera teatrale travalica il suo tempo e acquisisce un ruolo importante nella cultura universale, va sempre ricordata la realtà da cui origina e che, per conseguenza, rappresenta. Se, ad esempio, parliamo della donna nel teatro greco, dobbiamo avere in mente la sua condizione reale in quella società: completamente sottomessa, relegata in casa ad accudire i figli, impossibilitata a raggiungere un’istruzione, esclusa dalla vita pubblica. Per gli antichi greci, addirittura, la donna è solo il “contenitore” della progenie, una specie di incubatrice. Un corpo necessario per la sopravvivenza della società perché solo lei garantisce la maternità: interessa il suo corpo, non il suo cervello. Lo dice Euripide: “Il miglior decoro della donna è il silenzio”. Il suo ruolo sociale e politico è minuscolo e limitato all’ambito domestico. Fuori, è la rovina dell’umanità. Lo si vede nell’epopea fondante la cultura greca, la guerra di Troia, causata da una donna: Elena, premio di una rivalità tra tre dee. Ma anche dopo, quando i guerrieri achei ritornano in patria, si trovano di fronte al tradimento, alla vendetta, all’usurpazione, ai delitti più efferati compiuti dalle loro donne. L’unica moglie che si salva, guarda caso, è Penelope, rimasta fedele a Odisseo, in quanto capace di attenersi al cliché domestico: sta chiusa in casa e tesse la tela. Le altre, seguendo le proprie pulsioni, sono causa di continui conflitti perché non sanno stare a loro posto: in clausura domestica. Elena con la sua bellezza e il suo tradimento è elemento scatenante del conflitto, Clitemnestra tradisce Agamennone e lo uccide. Una situazione da cui emergeranno le tragedie greche con le loro figure femminili dai connotati negativi.


 


Un momento, c’è anche Antigone, prototipo di amore fraterno e di pietà...


Così la vediamo noi, ma non così la vedevano i greci. Come Medea, Antigone è figura che va oltre i limiti. Lo dice anzitutto il nome: Antigone è anti-generazione, contro ciò che il greco considerava naturale. Il teatro nell’antica Grecia era scritto, diretto, interpretato da uomini e per una società maschilista, che escludeva le donne dalla vita pubblica. O meglio, come presso tutti i popoli dell’epoca, c’erano delle donne pubbliche: o intrattenitrici d’alto bordo, e quindi artisticamente e culturalmente preparate come le etere, o le prostitute per le classi inferiori.


In tale contesto come poteva essere letta la ribellione di Antigone, se non come esempio negativo di femminilità, così come Creonte è l’esempio negativo del potere statale? Entrambi sono portatori di giuste istanze, quelle del governo della cosa pubblica e della pietas familiare, ma la loro tragica fine indica che sbagliano in qualcosa. E Antigone non sbaglia a chiedere la sepoltura del fratello, ma nell’opporsi pubblicamente al sovrano e a “fare l’uomo”.


Le tragedie greche sono piene di donne ed eroine, messe in scena solo da uomini. Questo è uno strano paradosso, visto che il teatro era una cosa seria, di alto valore politico, fondamentale per costruire la democrazia. Non a caso il teatro nasce ad Atene, e proprio nel periodo in cui questa inventa la democrazia: non ci sono rappresentazioni sceniche nell’aristocratica Sparta. E il teatro ateniese è comunque assai diverso dal nostro concetto di teatro.


 


Fermiamoci un attimo qui: perché nasce il teatro nell’Atene maschilista?


Nasce non come spettacolo, ma come evento che si svolge una volta all’anno. E si sviluppa nel contesto del rito dionisiaco; è un’evoluzione del rito religioso che prende piede quando Atene passa alla concezione democratica e, allo stesso tempo, dalla cultura magico-religiosa passa a quella filosofica che si interroga sulla causa reale dei fenomeni. Come avviene questo passaggio fondamentale? Nella società monarchica, o nella tirannia, o nell’oligarchia, c’è una chiara gerarchia; c’è chi sta in alto e chi sta in basso, chi ordina e chi obbedisce, chi fa le leggi e chi le subisce. Nella democrazia si parte dal concetto che si è tutti uguali. E questo è fonte di enormi problemi.


 


Perché mai?


Risulta evidente in tutti i miti di fondazione, in cui l’uguaglianza è espressa al massimo grado dall’esempio dei fratelli e dei gemelli: Caino e Abele, Romolo e Remo, ecc. Come va a finire? Uno ammazza l’altro. Per rivalità rispetto a un unico oggetto del desiderio. A chi tocca dei due una cosa che non si può spartire? Proprio a causa di questa perfetta eguaglianza non ci può essere accordo. Ma se i due entrano in conflitto e sono pari, il loro conflitto rischia di portare tutti alla rovina della guerra fratricida o “civile”. L’Iliade è l’esempio perfetto. Già dai primi versi individua il problema: non nella guerra contro Troia, ma nella guerra intestina che si genera tra le file dei greci a seguito del dissidio tra Agamennone e Achille, la cui “ira funesta” provoca “infiniti lutti agli achei”. Accertato che l’uguaglianza è fonte di tutti i mali, il rimedio è la creazione di una società gerarchica, fondata sulla più ampia differenza. La prima fra tutte quella tra uomo e donna.


Un’esperienza religiosa di tipo egualitario, orgiastico, come il rito dionisiaco, convincerà tutti che l’ordine sociale deve essere gerarchico e non democratico. Una volta all’anno, in quella specie di carnevale greco, che erano le feste dedicate al dio del vino, della maschera, dell’ebbrezza, veniva sospeso l’ordine e si concedeva una licenza generale, i cui effetti disastrosi (come violenze, stupri, ruberie, ecc.) portavano alla ricerca di un capro espiatorio, come Dioniso, causa dell’irruzione dell’uguaglianza caotica e quindi del collasso sociale. Il suo sacrificio riportava la società all’ordine (gerarchico e disuguale).


Atene pensa di poter uscire dal sistema gerarchico e inventa la democrazia, possibile solo se si passa al logos, alla scienza, all’arte e alla tecnica. Tutti gli uomini sono uguali, eccetto però le donne... Perché? Perché non hanno il logos. Perché per i greci sono governate dalle passioni, dal corpo, dal pianto. Destabilizzano in altri termini il sistema, perché rischiano sempre di portare il razionale all’irrazionale...


Se le cose stanno così, è ovvio leggere – per i greci – le donne della tragedia come esempi virtuosi se tacciono e sono sottomesse, ma, soprattutto, come esempi orrendi in tutti gli altri casi.


Il teatro nell’Atene democratica si sviluppa all’interno del rito dionisiaco e ha la funzione educativa di illuminarlo attraverso una visione ragionevole e ragionata. Una forma d’arte che rappresenta quanto di torbido c’è nel mondo allo scopo di mostrare la via per evitarlo. E, inoltre, le donne che erano protagoniste reali dei riti dionisiaci (le baccanti) ora diventano protagoniste mascherate delle rappresentazioni tragiche. Oltre il danno la beffa! Lo scopo del teatro greco è di mostrare quel che avviene nel mondo caotico e perverso che sta al di fuori della ragione democratica di Atene. Come spiega Aristotele, il teatro deve sollecitare pietà e terrore nello spettatore, così che questo sia portato alla catarsi ovvero liberazione dalle passioni, dal corpo, dal sesso, dal pianto, insomma dalle donne…


 


Oggi sono passati 24 secoli...


Non solo il tempo è passato, ma la cultura è cambiata radicalmente. Si è sviluppata la cultura cristiana, che Nietzsche accusa di essere iperfemminista e ugualitaria: è questa cultura che ha liberato la donna nella società, e con essa ha cambiato radicalmente anche il teatro, e la condizione dei teatranti. L’Antigone di Sofocle diventa così, nella versione di Bertold Brecht la razionalissima campionessa della democrazia e della pace contro Creonte, furioso tiranno guerrafondaio. Perché tra l’una, quella greca, e l’altra, quella interpretata nella nostra democrazia, le condizioni socioculturali delle donne sono radicalmente cambiate. Eroine teatrali, democrazia ed emancipazione reale delle donne ora viaggiano in parallelo…


 


Ma anche nella Roma cristiana il teatro non era proprio ben visto...


Certo, perché ancora non “liberato” e “liberante”. Nella Roma imperiale appaiono sì per la prima volta in scena le attrici (le mime), ma erano di condizione inferiore e considerate delle prostitute, donne oggetto. La premessa culturale alla loro emancipazione è il rovesciamento di rappresentazione del femminile avvenuto col culto mariano. La Vergine, “senza peccato” quindi la più grande tra gli esseri umani, non è un uomo, ma una donna. La sua figura si presenta con grande potenza nelle sacre rappresentazioni medievali, dove appare come colei che è nella Pentecoste, è al centro degli Apostoli, sostituisce Cristo, è praticamente il capo della Chiesa, e diventa l’immagine della Chiesa. Una donna! È questa immagine che accompagna la progressiva emancipazione delle donne nei diversi campi pubblici. Sociali, culturali, artistici, politici.


In teatro ciò succede nel ´500, non nell’Italia del Rinascimento, ma della Controriforma: solo allora ricompaiono le donne in scena, non più mime o soubrettes, ma attrici, ovvero donne soggetto che escono dai canoni della vita domestica e familiare, che non vogliono essere assimilate alle prostitute, ma fanno dell’arte scenica la loro via dell’emancipazione. Ciò la dice lunga delle polemiche contro il teatro e contro la donna per buona parte della storia cristiana che sono in genere lette come prova del credo repressivo, puritano e misogino del cristianesimo. Ma chi muove tali critiche ignora il poderoso ruolo liberatorio nei confronti della donna esercitato dal cristianesimo. Infatti è solo col cristianesimo che la donna acquisisce pari dignità con l’uomo.


 


La figura di Giovanna d’Arco in questo periodo assume rilevanza: in Francia diventa l’eroina nazionale.


Ma nella sua prima rappresentazione teatrale, l’Enrico VI di Shakespeare, Giovanna d’Arco appare come un essere demoniaco, dai contorni non ben definiti, certamente strega. Ancora una volta, l’opera teatrale non intende rispecchiare la realtà storica della persona che rappresenta, bensì le ansie e i caratteri dell’epoca e del luogo in cui è scritta. L’Inghilterra elisabettiana cominciava a percepire i segni della rivoluzione culturale delle donne: il suo capo era Elisabetta, vergine e regina, che incarnava proprio la figura di una donna non sottomessa al potere maschile. L’Inghilterra era avversa alla Francia e quindi Shakespeare non poteva accettare di rappresentare in modo positivo una guerriera che per giunta aveva sconfitto gli inglesi meno di due secoli prima.


 


Anche Schiller rappresenta Giovanni d’Arco e, da buon protestante, la fa cadere vittima dell’innamoramento verso Talbot...


A me pare che, più che la critica del protestante verso il mondo cattolico, conti in Schiller l’afflato romantico. In polemica, tra l’altro con il francese Voltaire, denigratore della leggendaria figura e dei miracoli della Pulzella, Schiller fa di Giovanna l’incarnazione poetica del sovrasensibile e del sublime. Per compiere la sua missione, la Pulzella deve rinunciare a ogni desiderio umano e femminile debolezza, ossia Talbot. Comunque resta il fatto che la figura di Giovanna d’Arco riprende tutti i tratti della donna libera, e libera grazie al cristianesimo. La verginità diventa, da certificato di garanzia fisica della merce-sposa tra i due maschi (padre e marito), espressione di indipendenza dal potere maschile, di piena padronanza di sé, autonomia e libertà. Non a caso la Vergine per eccellenza è Maria, che, appunto, non soggiace al potere di alcun uomo. E sulla scorta del suo esempio le vergini consacrate e non, le vergini di testa e di cuore, teatranti in testa, sono l’affermazione dell’indipendenza dal potere maschile che il cristianesimo instilla nella donna.


 


Oggi l’uso del corpo femminile a piene mani nella pubblicità sembra intraprendere un cammino opposto.


Un momento. Per puntualizzare oggi la condizione femminile nel mondo occidentale basta confrontarla con quella nel mondo islamico, dove in vario grado si richiede o si impone che la donna sia tutta coperta da veli. In questo modo, si sa, ella esprime la propria appartenenza a un solo uomo, il marito. Quando invece sulle nostre spiagge vediamo donne in topless immaginiamo forse in loro una profferta di meretricio? No. Vediamo solo l’affermazione del loro desiderio di stare così come desiderano. “Il corpo è mio e me lo gestisco io” dicevano le femministe degli anni ´60. Proprio il totale svelamento del corpo proclama che le donne, tutte le donne (non solo quelle belle e mercificate), non appartengono ad alcun maschio e addirittura, come nel caso delle ballerine di lap dance, crolla il mito della donna oggetto e si esalta al massimo la donna soggetto, perché esse non sono vittime delle decine di uomini bavosi che le guardano, ma le loro dominatrici. Nessuno di loro le potrà avere contro la loro volontà. Nella lap dance il maschio prova il massimo della sua frustrazione. Dalle mime romane alle ballerine di lap dance il potere è passato da lui a lei. Lo schiavo è lui. Paga addirittura le ballerine ma non le può avere… Esse sono semplicemente delle artiste e delle professioniste che, terminato il loro lavoro di Eros irraggiungibile, se ne vanno a casa, dal marito e dai figli.


 


In conclusione di può dire che la liberazione della donna coincide con la liberazione del teatro...


Oggi il teatro è un luogo dove si fa cultura, ed è libero. E libera è la donna nel teatro: sia attrice, regista o autrice (le new entry del Novecento). Se nell’Atene del V secolo a. C. il teatro era appannaggio degli uomini e le figure femminili erano per lo più negative e importante era solo l’ambito pubblico, oggi la donna agisce su un piano di parità con l’uomo e alimenta il teatro come luogo di libera espressione e di rivoluzione culturale con un incredibile apporto di energie, idee, visioni, vie e attenzioni. Facendo diventare il logos carne. Riportando ad amplesso il dionisiaco e l’apollineo la donna contribuisce attivamente e profondamente anche alla critica politica, e alla rivoluzione dei costumi.