Marcando il Cammino

MARCANDO IL CAMMINO

di Julia Varley, attrice dell'Odin Teatret, Danimarca




























Terremoti


Guardavo Annamaria Talone. Piangeva, piano, senza singhiozzi. Piangevamo tutte per la vita di Noemi Tiberio, finita sotto le macerie della casa da cui non era riuscita ad uscire in tempo durante il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009. Leggevo nel dolore di Annamaria le aspettative andate in frantumi dopo anni dedicati a realizzare a Pescara l’incontro del Magdfest, un’attività del Magdalena Project, la rete internazionale di donne del teatro contemporaneo. Che senso aveva ora un incontro di donne e teatro, di fronte alla morte di un’amica, di una giovane studiosa; di fronte alla distruzione di un’intera città, di case, chiese, università, di fronte a morti e sfollati, alle tendopoli, all’emergenza dopo il terremoto. Di fronte al terrore di altre scosse fatali?


Per anni Annamaria mi aveva scritto delle sue intenzioni. Aveva un buon contatto con l’assessore alle pari opportunità della Provincia di Pescara e voleva che venissi nella sua città per dare un seminario e presentare spettacoli. Mi affannavo a trovare le date giuste tra i miei impegni con l’Odin Teatret e cercavo giorni nelle mie vacanze estive o pasquali. Poi Annamaria era stata al Festival Transit in Danimarca e aveva conosciuto altre donne che l’avevano affascinata. Il suo progetto era diventato sempre più ambizioso. Nel frattempo aveva messo su famiglia, aveva avuto un bambino, e continuava a lottare con le ostruzioni quotidiane per fare teatro nella sua città. Quando le sono state confermate le sovvenzioni, Annamaria ha scelto il tema della voce ed ha invitato Helen Chadwick, una cantante e compositrice inglese; Ana Woolf, un’attrice argentina di cui ho curato la regia di due spettacoli; Ermanna Montanari, la straordinaria attrice italiana del Teatro delle Albe; la compagna d’organizzazione che veniva da Torino, l’attrice Gabriella Sacco; varie compagnie locali fra cui il Rogo Teatro; e me.


Forse Annamaria immaginava che le difficoltà sarebbero finite con la conferma delle sovvenzioni, invece proprio in quel momento è scoppiata la battaglia con la burocrazia statale, con la caotica organizzazione degli enti locali e con le gelosie degli altri teatranti della regione. Doveva fare miracoli per trasformare promesse fatte a parole o sulla carta in contanti, sale, appoggio tecnico, annunci, letti e cibo. Non ha rinunciato e, con il figlio Enrico in braccio, ci ha portato tutte a Pescara e a Bolognano, un paesino delle montagne fra Pescara e L’Aquila.


Per proteggere l’intimità dell’atmosfera di lavoro, i seminari si svolgevano nell’atrio della scuola di Bolognano a cinque minuti da dove dormivamo e mangiavamo. L’albergo era gestito da un amico e i prezzi erano di favore. Usavamo l’unico computer agibile con internet nella sua casa di fronte alla chiesa nella piazzetta dell’albergo, giusto accanto ad altre tre villette con vasi di fiori colorati all’entrata. La piazzetta mi ha subito colpito per la sua armonia, l’albergo per la sua comoda austerità, il cibo e il vino per la sensazione di essere fatti in casa. La finestra della mia stanza dava su una valle; da lì potevo vedere gli anziani del paese seduti sulle panchine comunali al sole e il ruscello che scorreva nel sottobosco appena fuori del cerchio di case di roccia grigia.


Le lacrime scorrevano sul viso di Annamaria. Cosa potevo fare per arginare la sua sensazione che tutto le sfuggiva di mano? Come lottare contro la consapevolezza dell’insensatezza del teatro così evidente nel momento in cui la realtà si confronta con la tragedia ultima della morte? Eravamo tutte riunite nella sala da pranzo. Era la sera in cui avevamo cancellato lo spettacolo a Pescara, la prima dopo il terremoto. Rogo Teatro aveva deciso di presentare il suo spettacolo solo a noi in omaggio a Noemi in una versione incompleta, senza tecnica e senza uno degli attori, partito a piedi pur di raggiungere la sua famiglia nella città in rovina, L’Aquila. Alla fine dello spettacolo le tre attrici hanno acceso una candela e distribuito del vino. Cristiana Alfonsetti ha parlato della sua compagna di studi sepolta sotto le macerie e Helen Chadwick ha cantato una canzone di sua composizione. “Come si fa a vivere con tanti lutti che si susseguono?” mi ha chiesto Annamaria. Oltre a Noemi, pensava alla morte recente di Cristina Wistari Formaggia, la danzatrice italiana residente a Bali che si era dedicata a salvaguardare la tradizione centenaria del Gambuh, partecipante assidua ai Festival Transit. Annamaria mi aveva seguita a Bali nel 2006 per le prove di Ur-Hamlet, uno spettacolo interculturale dell’Odin Teatret. La morte di Cristina ci aveva colpito  entrambe nell’intimo. (Avevo ricevuto la notizia al termine di un altro festival di Magdalena, in Brasile, il giorno prima del mio compleanno, e raccontai di Cristina alle donne riunite per festeggiare la fine dell’incontro.) Ho risposto ad Annamaria: “Dando voce a quelle che non ci sono più, perseverando nel nostro lavoro.” Dobbiamo continuare a fare teatro, a documentare e scrivere, per lasciare segni che indichino la strada percorsa e orientino chi cerca il suo cammino.


Dormivo in una stanza al primo piano dell’albergo, un vecchio convento dalle mura spesse. Mi ha svegliato il rumore assordante di una mitragliatrice. Non capivo come un sogno potesse fare tanto fracasso. Tutto nella stanza tremava; l’aria sbatteva da una parte all’altra. E continuava. Continuava anche il tempo di pensare: “Cosa sta succedendo? Cosa devo fare? Mi devo vestire? Prendere la borsa? Il computer? Mettermi gli stivali? La giacca? Correre giù per le scale?” Ho sperimentato altri terremoti in vita mia, ma sono sempre passati così velocemente da ritrovarmi in un altro posto senza capire cosa fosse successo. Le crepe nel muro e i mobili riversi davano la spiegazione dopo. Ora, invece, mi rendevo conto che era un terremoto allo stesso tempo che mettevo la giacca sopra la camicia da notte, con l’acuta consapevolezza che dovevo fare in fretta nonostante all’aperto avrebbe fatto molto freddo.


Fuori era buio pesto e non si vedeva nulla, sotto i piedi scricchiolava l’intonaco caduto dalla casa accanto. Sarà pericolante? Tutte si domandavano cosa fare. Bisognava uscire all’aperto? Andare via in macchina? Tornare a dormire? Telefonare? A chi? Erano le quattro del mattino. Le luci funzionavano ancora e anche il telefono, ma nessuno rispondeva, né la protezione civile, né i carabinieri. Mancavano Ana Woolf e Helen Chadwick all’appello. Ci chiedevamo come avevano fatto a non svegliarsi. Il giorno dopo venimmo a sapere che erano rimaste immobili sotto le coperte, una troppo impaurita per alzarsi e l’altra abbandonata a un senso di fatalità. Rimasi seduta fra le altre, avvolta in una coperta. La mia flemma inglese sembrava dare tranquillità, specialmente ai genitori di Annamaria che tenevano il piccolo Enrico in braccio coprendolo di vestiti, mentre Annamaria, preoccupata, parlava con l’una e con l’altra delle possibili decisioni da prendere. Alcune partecipanti volevano andarsene lontano, altre che erano della regione volevano raggiungere subito le loro case per stare vicine alle famiglie.


Detti l’esempio e tornai a dormire nella mia stanza al primo piano, mentre altre partecipanti trascinavano i loro materassi per i corridoi e le scale per dormire assieme nella sala da pranzo riparandosi sotto le volte che sembravano resistenti. Era meglio stare al pian terreno? “Sotto i tavoli, lontano da oggetti appesi alle pareti”, erano le istruzioni che avevo letto in certi alberghi in California e in Giappone, mentre in altre direttive c’è scritto di raggomitolarsi giusto accanto ai mobili alti, nel cosiddetto triangolo della vita. Soprattutto non prendere l’ascensore! Il teatro ci insegna a drammatizzare, a evidenziare le tensioni, a mettere in visione i conflitti per creare attrazioni e suscitare reazioni nello spettatore, ma anche a pensare con il corpo e a lasciarci guidare dall’intuizione, a fare ciò che è necessario senza esagerare inutilmente. Le varie tendenze erano evidenti in noi tutte: chi pensava alla propria incolumità, chi si preoccupava di come essere d’aiuto e chi era come stordita dalla forza indomabile della natura.


Nel descrivere la mia tecnica di attrice, ho sempre parlato della saldezza che viene dalla terra, del bisogno di appoggio nei piedi per poter proiettare energia in scena. Ora mi confrontavo con la sensazione di instabilità e insicurezza totale al sentire la terra che tremava, che si ribellava e decideva di scuotersi, distruggere e ristabilire un ordine diverso. Ho usato l’immagine della terra che sussulta sotto i piedi affrontando il tema di ‘periferia’ nel discorso di apertura del sesto Festival Transit nel 2009. Lo stare in periferia corrisponde a situarsi in una posizione di rischio, fuori equilibrio. Ma è molto diverso se siamo noi a scegliere l’equilibrio instabile come premessa di creatività o se siamo forzate a subire una posizione irremovibile e precaria che sembra senza vie d’uscita. Le metafore ci aiutano ad intuire, ma non sempre sono traducibili in esperienza reale.


Di nuovo a letto, con le calze ai piedi, cerco di dormire, pronta a saltare giù e correre via. Sento il letto sussultare. Sono io? Altre scosse? È la mia paura? Ora tutto è silenzioso. Mi sento sola, ma preferisco questo alle insistenti domande senza risposta delle persone che sono rimaste assieme al piano di sotto. Tremo. Mi giro. Il letto vibra. Mi alzo a metà, in attesa. Non è il letto a tremare; sono io. Mi sdraio ancora. Dormo – quasi. Mi siedo nel letto, poggio i piedi a terra. Aspetto. Il tremore è passato. Mi stendo di nuovo. Lascio la luce accesa: ho lo stesso bisogno di sicurezza di una bambina piccola lasciata sola in una stanza buia. Chiudo gli occhi. Non dormo. Passano le ore ed è mattino. La sensazione di tremore del letto (o del corpo) non mi lascerà per vari mesi.


È incredibile la persistenza della memoria fisica. Di ritorno in Danimarca per molto tempo ho avvertito le scosse che mi facevano sobbalzare e mi atterrivano, specie nelle prime ore del mattino. Mi chiedevo in continuazione: cosa sente, come vive, chi ha veramente subito le conseguenze del terremoto?


Poi è successo anche in Danimarca! Nel paese dove credevo di essere al sicuro da calamità naturali, dove al massimo è il rumore del vento che infuria a preoccuparmi, una sera, mentre guardavo la televisione, ho sentito un rombo e la mia poltrona ha vacillato. Pensavo di avere un’allucinazione, ma il mattino dopo la radio ha confermato questo evento raro: un terremoto il cui epicentro era a 100 chilometri da Holstebro, con case danneggiate e abitanti in panico per strada. Un paio di mesi dopo la stessa situazione si è ripetuta a Taipei, dove la popolazione è talmente abituata alle scosse che neanche se ne accorge. Ero nell’albergo per studenti che Ya-Ling Peng usa per ospitare le invitate agli incontri Magdalena che è riuscita ad organizzare ben due volte al National Theatre. Ero seduta al computer a scrivere e-mail, routine abituale durante le tournée, e la stanza ha ondeggiato. Al festival precedente, Brigitte Cirla aveva sentito le scosse sul palco, ma Ya-Ling l’aveva istruita che anche con il terremoto gli spettacoli continuano: da loro i palazzi sono costruiti per resistere.


A Bolognano, il mattino dopo il terremoto, eravamo tutte al telefono, camminando per strada dove prendevano i cellulari con la mano accanto all’orecchio e la voce che si perdeva nel nulla. L’Aquila è distrutta, gli abitanti hanno dormito in macchina, cominciano a sorgere le tendopoli, non possono tornare alle loro case, il centro è chiuso e le ruspe lavorano. Sono in ansia per Elena Floris, la violinista che lavora con Iben Nagel Rasmussen nello spettacolo Il libro di Ester e nel gruppo “Il ponte dei venti”. Fino a sera nessuna notizia, poi sappiamo che è scappata con la famiglia al mare e uscendo di casa ha preso con sé solo il suo prezioso violino. Rimandiamo l’inizio del seminario di un’ora, ma è importante lavorare, riprendere l’attività, fare. Al mattino Ana e Helen conducono le partecipanti, io al pomeriggio. All’ora di pranzo Cristiana Alfonsetti ci informa della morte di Noemi Tiberio. Ora è ancora più importante lavorare. Non serve andare all’Aquila per aggiungersi alla lista di persone che hanno bisogno di mangiare, dormire, di andare al gabinetto e farsi una doccia. Non serve camminare avanti e indietro facendosi domande sull’ingiustizia divina e sulla criminalità umana. Faccio un esercizio di riscaldamento vocale per stabilire un rapporto di fiducia fra i piedi e il suolo e trovare una buona base di appoggio. Siamo tutte a piedi nudi, nella piazzetta fuori l’albergo. Fra i ciottoli spostiamo escrementi di cane, tenendoci a distanza dal nastro rosso e bianco messo dal Comune per isolare la casa vicina da cui è caduto il cornicione. Qualcuna lavora al sole per riceverne il calore, altre all’ombra per ripararsi. L’essenziale è mantenere un livello alto di difficoltà degli esercizi per favorire la concentrazione.

Durante il festival Ana Woolf doveva riaprire il teatro di Tocco, un altro paesino di montagna della provincia di Pescara, con Semi di memoria, lo spettacolo sui desaparecidos in Argentina. Ma è crollato una parte del soffitto, il teatro è di nuovo inagibile e nel paese hanno subito un lutto. Non possiamo proporre di fare spettacoli lì, anche in cattive condizioni, senza l’invito specifico della comunità. Il sindaco del paesino preferisce rimandare.


Per noi il teatro è un modo di stare insieme, di creare una struttura, un rituale, che permette di unirci per affrontare momenti difficili. Ma gli spettacoli sono concepiti anche per diversione, riflessione e celebrazione. Non sempre il teatro è accettabile e adeguato alla situazione. Lo spettacolo di Ana sarà presentato a Tocco due mesi dopo come parte delle attività nate durante il Magfest per aiutare gli abitanti della regione devastata. 


La vita deve vincere e il Magfest continua, anche se i nervi sono a fior di pelle fra organizzatrici, partecipanti, artiste. Gabriella Sacco non sta bene e lotta per trovare l’energia per presentare il suo spettacolo. Annamaria Talone, esausta e preoccupata, avrebbe bisogno di più appoggio organizzativo. L’economista Barbara Chiavarino mi racconta spaventosi episodi della sua vita durante una pausa. Ermanna Montanari, partita dopo il nostro incontro pubblico e il suo spettacolo la stessa notte del terremoto, ci telefona per sapere come stiamo. Helen Chadwick, per il suo concerto, non sa se spiegare in un italiano che non conosce, con una traduzione simultanea dall’inglese o usare uno spagnolo approssimativo, e finisce con un miscuglio di tutte le soluzioni. I gruppi locali non si mettono d’accordo sulla loro riunione programmata; molte persone sono assenti, confuse da comunicazioni contraddittorie. La loro concentrazione è presa dalla riorganizzazione della vita di tutti i giorni dopo il terremoto. Propongo ad Annamaria Talone di pubblicare alcuni scritti di Noemi Tiberio fra il resoconto del Magfest. (Si erano conosciute a Caulonia durante una sessione dell’Università del Teatro Eurasiano organizzato da Claudio La Camera e Maria Ficara, una delle redattrici della rivista The Open Page del Magdalena Project. Noemi era felice perché la rivista Teatro e Storia aveva pubblicato un suo articolo ed era riuscita a terminare la regia del suo primo spettacolo.) Confermiamo gli spettacoli programmati a Pescara, la città che non ha sofferto danni diretti e che si è aperta per ospitare gli sfollati. Ana Woolf presenta Semi di memoria dopo Olga Sergeevna, lo spettacolo con la regia di Annamaria Talone. Sentiamo una scossa. Nessuno del pubblico si alza; solo qualche spettatore si guarda in giro scambiandosi occhiate preoccupate. È un tremito passeggero, non un susseguirsi di sussulti. L’attrice in scena è l’unica a non notare la terra che trema e l’oscillazione delle lampade nel capannone. Lo spettacolo continua e mentalmente comincio a preparare il giorno dopo in cui dovrò presentare il mio.


Nell’intervallo ci chiamano amici da Roma: “Dovete partire subito! Cosa fate ancora lì?” Dobbiamo partire per dove?


Dov’è un posto al mondo d’oggi dove non si vive un qualche pericolo?

Penso alle continue preoccupazioni di mia madre quando viaggio in America Latina, lei che è stata derubata a Parigi e a Londra, lei che vive a Napoli. Penso alle terribili immagini dello tsunami sulle spiagge soleggiate e vacanziere della Tailandia. Penso alla paura nelle società sotto dittatura e a tutte le riprese televisive di paesi in guerra. Penso all’equilibrio instabile fra sicurezza e rischio, fra necessità e protezione, fra coerenza e compromesso. Oggi, mentre scrivo, penso anche alle immagini del terremoto a Haiti e in Giappone, alle lettere di conoscenti dopo quello in Cile, alle montagne di neve che hanno seppellito la Danimarca dal giorno in cui si è concluso a Copenaghen il congresso sul riscaldamento globale del pianeta, e alla nuvola di cenere lanciata da Eiyafjalljökull, il vulcano islandese che ha bloccato il traffico aereo in nord Europa per vari giorni. Penso allo spettacolo che sto preparando con la cilena Carolina Pizarro che descrive i terremoti e gli tsunami della sua terra. Comparo il mio ricordo della notte a Bolognano con il rumore impressionante della sua carta da pacco che copre tutta la sala e si corruga e si arriccia sbraitando sotto i suoi piedi che danzano in un disequilibrio furioso e padroneggiato. Penso a tutte le mail che mi arrivano rassicurandomi che nel dicembre 2012, quando forse saremo riunite da Parvathy Baúl per un incontro Magdalena in India, non ci sarà la fine del mondo. Questa data annunciata dal calendario Maya marca solo un profondo e necessario cambiamento.


È necessario un cataclisma per cambiare? L’esperienza del terremoto è devastante, penetra nel sistema nervoso, nella memoria animale, rende isterico l’istinto di sopravvivenza. Eppure non posso fare a meno di pensare a tutti i terremoti metaforici che hanno scosso la cronistoria del Magdalena Project, obbligandoci ogni volta a dissotterrare nuove direzioni. Conosco bene i sismi deliberatamente provocati che hanno sferzato e rinvigorito l’Odin Teatret rinnovando e approfondendo i legami dello stesso gruppo di persone per quasi 50 anni. Scosse o addirittura terremoti come svolte fondamentali sono stati la decisione presa da Jill Greenhalgh di non dirigere lo spettacolo finale al primo Festival Magdalena nel 1986; l’interminabile maratona-staffetta che ho proposto alle partecipanti dell’incontro di Holstebro nel 1987; le discussioni sulla regia avvenute al festival organizzato da Geddy Aniksdal e Anne-Sophie Erichsen al Grenland Friteater nel 1989; la difficoltà di collaborazione riscontrata fra le cantanti che partecipavano ai festival di voce nel 1989 e 1991; il festival del 1994 a Cardiff in cui abbiamo celebrato i primi dieci anni di attività; la chiusura dell’ufficio Magdalena di Cardiff e il trasferimento di Jill Greenhalgh in una casa di campagna nel 1997; ancora nel 1997, la mia decisione di stampare The Open Page all’Odin Teatret e poi di non farlo più nel 2008; la controversia sulla produzione dello spettacolo Child e la dimissione di tutte le membri del consiglio di amministrazione gallese nel 1999; la creazione della pagina web di Magdalena nel 1999; l’impulso rinnovatore dato dai festival organizzati da Sally Rodwell e Madeleine McNamara in Aotearoa-Nuova Zelanda nel 1999 e poi da Dawn Albinger in Australia nel 2003; il primo festival Magdalena Sin Fronteras organizzato a Cuba nel 2005 da Roxana Pineda che non aveva mai partecipato a un evento prima; le discussioni sull’identità del progetto scaturite dopo il festival organizzato da Margarita Borja in Spagna nel 2005; riunire nella stessa sala di lavoro artiste con molta esperienza per un work in progress chiamato Donne dagli occhi grandi nel 2007; la maturità dimostrata dal primo festival Vértice organizzato in Brasile da Marisa Naspolini nel 2008.


I terremoti all’Odin Teatret fanno parte della strategia di rivitalizzazione di un gruppo di persone che si conoscono bene sia nel mestiere che nel personale. Quando è diventato subitamente famoso nel 1968, dopo il Festival delle Nazioni a Parigi, Eugenio Barba ha sciolto il gruppo ponendo condizioni più dure a quelli che volevano continuare; nel 1974, gli attori dell’Odin Teatret, abituati a presentare spettacoli fissati nei minimi dettagli a pochi spettatori in una sala chiusa e protetta, si sono trasferiti in un paesino del Salento in Sud Italia per lavorare all’aperto senza uno spettacolo; nel 1977 l’Odin fu chiuso per tre mesi e gli attori hanno viaggiato in vari angoli del mondo per conto loro, trovando al loro ritorno murata la porta che usavano abitualmente per entrare. Nel 1983 il regista ha lasciato il gruppo dando agli attori la responsabilità della conduzione artistica ed amministrativa dichiarando che i giovani dovevano rompere il vetro della teca da museo che li avvolgeva, e dopo un anno è tornato per riconfermare l’autorità dell’attore più anziano. L’instabilità provocata da costrizioni che obbligano a reazioni imprevedibili è ripristinata per ogni nuovo spettacolo: per Il vangelo secondo Oxyrhincus Eugenio Barba ha preso l’avvio da una frase, “Leoni impazziti nel deserto”; per Mythos ha preparato uno spazio di pietra che rigettava la presenza degli attori e ha dato l’istruzione di lavorare senza fissare partiture; per Il sogno di Andersen gli attori avevano il compito di fare un viaggio in Africa, una permanenza in un asilo di vecchi e preparare ognuno uno spettacolo di un’ora; La vita cronica è cominciato con un tema tabù e inaffrontabile.


Abbiamo vissuto terremoti anche storici. Nel 1989, quando è caduto il Muro di Berlino, alcuni hanno reagito suicidandosi, come altri avevano fatto nel 1956, dopo che i sovietici hanno invaso l’Ungheria. Come continuare a vivere quando sparisce la speranza in un mondo migliore o il senso della lotta per questo obiettivo? Come continuare il cammino quando le fondamenta si inabissano sotto i nostri piedi? Eppure per alcuni la caduta del Muro di Berlino ha rappresentato una promessa e una prospettiva. Dove sono oggi quelli che formavano le fila della protesta giovanile del ’68? Ne parlavo con Touria Hadraoui durante un mio viaggio nel suo paese. Touria è una cantante marocchina che ho conosciuto al Festival Voix de Femmes diretto da Brigitte Kaquet in Belgio e che è venuta in Danimarca al quarto Festival Transit. Oggi, in Marocco, o sono alcolizzati o sono partiti, mi ha risposto.


Come mantenere viva la possibilità dell’utopia, mentre le democrazie eleggono i Bush, Sarkozy e Berlusconi di turno? Alcune di noi sono riuscite a custodire il senso di ribellione, la necessità di giustizia e l’esigenza di appartenere ad una comunità impegnandosi con passione e rigore nel teatro.


La rete di Magdalena Project ha centralizzato il nostro ruolo di donne nel tenere accesa questa fiamma, allargando il nostro campo d’azione con onde che raggiungono angoli del mondo dove non siamo state e dove forse non andremo mai. Dopo venticinque anni di storia, mi capita di ascoltare incuriosita donne che conosco appena che parlano della rete del Magdalena Project e di attività completamente indipendenti da noi che l’abbiamo fondata. Ogni giorno incontro donne di tutte le età, di diversa provenienza geografica e genere teatrale, che mi chiedono come possono entrare in contatto con Magdalena, come partecipare e portarci i loro spettacoli.


È certo che abbiamo fatto molto. Abbiamo lottato tanti anni, eppure l’isolamento e la solitudine, la difficoltà di vivere del proprio mestiere, la penuria di fondi, i pochi spazi dove mostrare il proprio lavoro sono problemi ancora ricorrenti. Nonostante ci siano giovani che sostengono che il femminismo non è più necessario grazie all’impegno delle nostre nonne, sono poche le donne che dirigono teatri, festival e istituzioni. Rimangono ancora molti obbiettivi da raggiungere, sebbene in genere come donne preferiamo concentrarci sulle relazioni personali, sulla famiglia, sui nostri gruppi e spettacoli, su tutto ciò che ci è vicino, invece di usare le nostre forze per imporci sulla storia, anche del teatro. Scegliamo un cammino fatto di azioni silenziose e anonime, piuttosto che sprecare energie per combattere battaglie su terreni che non sentiamo nostri.


Quelle di noi che hanno avviato i primi incontri e festival, si affacciano alla fase della vita in cui vecchiaia e morte fanno capolino. Genitori, amici e colleghi ci abbandonano lasciando un vuoto incolmabile nel cuore e preoccupazioni di gestione quotidiana. Vorremmo usare le nostre forze solo per l’essenziale. La saggezza vuole sostituirsi all’entusiasmo; il risparmio delle energie alla dispersione, un silenzio pregnante alle grida di protesta. Ma situazioni estreme – come lo sono stati i vari tipi di terremoto per me – e incontri in luoghi e tempi difficili fanno riaffiorare la motivazione in mezzo all’indifferenza e alla monotonia della routine. Il lusso di partecipare a festival e di scambiare esperienze rinnova in noi il desiderio di esserci anche in futuro. Così andiamo avanti orchestrando una valanga di attività, consapevoli del privilegio di appartenere a una rete di contatti professionali e di amicizie che ci piace ritrovare nonostante i mille impegni impellenti di ognuna di noi. Oggi, quando tutto si risolve per via virtuale, condividere lo stesso spazio e tempo non è più un diritto ovvio. I tempi sono cambiati, le mode teatrali anche, ma noi seguitiamo a camminare una accanto all’altra, con la stessa testardaggine il cui valore sottolineavo nel programma dello spettacolo Il gusto delle arance che Gabriella Sacco ha presentato al Magfest di Pescara dopo il terremoto.




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