editoriale

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APPUNTI DI TEATRO:

L'IDENTITÀ UMANA

di Leonardo Servadio


Più vero della realtà. Il teatro, luogo in cui emerge l'essere che sovrasta le finzioni, le minuzie, gli affanni e le pretese quotidiane, ha sempre avuto il potere di rivelare quel che la consuetudine dei giorni lascia nascosto. Il buon teatro, almeno.

Oggi la sua missione è ulteriormente accresciuta, perché nel mondo della comunicazione universale il rischio è di fermare il dialogo nel solipsismo delle immagini, ovvero nella “finzione” esacerbata dal filtro del “web” che rinserra l'essere dentro lo schermo del computer o dei molteplici altri strumenti che consentono di comunicare con persone che possono indifferentemente trovarsi a migliaia di chilometri o a pochi centimetri, ma sono in ogni caso trasfigurate dalla potenza del “medium”. L'immagine che cattura l'essenza del problema è quella di due giovani, un ragazzo e una ragazza, seduti al tavolo di un bar, entrambi impegnati, concentrati, chiusi nel loro dialogo con lo smartphone. Potrebbero indifferentemente intrattenersi in uno dei tantissimi giochi offerti sull'astratto scenario di Internet, trovarsi impegnati nello studio di importanti eventi  o documenti disponibili in rete, chattare con amici, colleghi o sconosciuti, o persino dialogare tra loro: ma non si parlano, non si guardano negli occhi, non si sorridono. Sono indifferenti alla presenza fisica dell'altro, all'impalpabile ricchezza espressiva del suo volto, al calore che irradiano labbra e sopracciglia, zigomi, braccia e mani quando accompagnano la parola, o sostituiscono la parola nel gesto. Sono estranei al mistero del fremito che l'emozione provoca in chi si identifica con l'essere che gli sta di fronte...

Il mezzo diventa il messaggio: la sintetica definizione di McLuhan, variamente malintesa, resta tuttavia come una profezia. La tecnologia allarga gli orizzonti sino al limite dell'infinito, la notizia si palesa nello stesso istante a Roma e Shanghai, a Bangkok e Bogotà, a Canberra e Delhi. Abbracciare il mondo con lo sguardo e girargli attorno nel volgere di minuti è possibile a chiunque, pur senza salire sull'International Space Station. Ma questo sovrappiù di conoscenza reca in sé il rischio forte di un allontanamento: dal contatto umano, dalla verità che solo la presenza può offrire.


Il teatro in tale contesto acquista una dimensione nuova, un quid di verità in più, che si somma a quanto già possedeva.


A differenza del cinema, il teatro mette in gioco la singola persona. Come l'acrobata che si esibisce senza rete, il teatrante può a ogni istante sbagliare e cadere: l'essere umano ritrova la propria fragilità. Paradossalmente, oggi più che mai in teatro la “persona” cessa di essere “maschera” per riattingere alle fonti dell'essere. La mediazione non è più la corazza del “cavaliere inesistente” che Calvino disegnò con acuta precisione, è invece l'arte intesa come capacità di esprimere moti profondi dell'anima, situazioni nascoste, segreti del pensiero.


Il teatro ritrova la dimensione umana della comunicazione.

Di qui l'urgenza di aggiungere uno strumento di osservazione e di sostegno per il teatro.

Già anni addietro, dal 1998 al 2001 il Teatro dell'Aleph pubblicò “Colpo di Scena”.


Oggi quella rivista rinasce in forma un poco mutata col nome di “Appunti di Teatro”, disponibile in rete per una più ampia circolazione, alla ricerca di nuovi incontri e sintonie.


Il teatro di per sé è eloquente: si spiega e si manifesta nell'interezza della sua complessità.


Ma una rivista mette inscena quel che sta prima e dopo la messa in scena. Motivazioni e tensioni da cui originano le opere. Tentativi e proposte che possono maturare o che possono restare a fluttuare nell'aria in attesa del momento magico in cui si possano inverare.

Sguardi retrospettivi che fissano sul foglio un poco di quel che è avvenuto per preparare quanto potrà avvenire.


E il tema di questo “numero zero” è “il teatro e la donna”.


Il problema di genere accompagna l'arte come accompagna la vita, sin dall'origine.

Una delle grandi conquiste, forse la più grande compiuta dalla tecnologia dei nostri giorni, è che toglie ogni privilegio alla forza fisica volta a sopraffare l'altro e in questo ottiene anche, potenzialmente, la perfetta parità tra i generi. Non perché si confondano, ma perché si contemplino nella reciproca complementarietà svuotata da ogni ambizione di sopraffazione.


Potenzialmente: perché la violenza resta, in episodi che ancora le cronache snocciolano di usuali sfregi e violenze, al punto che da qualche tempo è invalso il neologismo “femminicidio”.


Ecco, il teatro ha anche questo potere catartico: liberando l'essere dalle catene della consuetudine rende giustizia e addita una via per superare l'angustia del presente. Nobilita le persone.


Di qui la scelta di dedicare alle donne questo numero del rinnovato “Colpo di Scena”.

Come spiega Claudio Bernardi nella sua intervista, la “liberazione” del teatro nella storia è andata di pari passo con la “liberazione” dell'attore e in particolare delle attrici. E il cristianesimo è stato il contesto culturale che ha favorito questa evoluzione.


Guardando a figure come Giovanna d'Arco, Edith Stein, Sophie Scholl, che sono state al centro di altrettante opere preparate dal Teatro dell'Aleph in questi anni recenti individuiamo un cammino di riscatto del teatro e della donna, da un pericolo che è forse più insidioso ancora della violenza: quello della banalità.


Sì, c'è qualcosa di intrinsecamente sacro nel teatro: la riscoperta dell'essere umano in tutte le sue dimensioni. Il riscatto dell'essere umano dalla singola dimensione in cui viene schiacciato dall'eccessiva semplificazione delle relazioni, siano esse di carattere economico, siano esse collegate all'ansia del divertimento.


In questa ricchezza di dimensioni e di relazioni, al di fuori dell'appiattimento massmediale, il teatro è maschile e femminile indifferentemente, equanimemente. Artefice di un cammino di liberazione in cui le persone possono assieme riscoprire l'identità umana.

L'INCONTRO COME RITO

E COME PROGETTO: UN INVITO

di Giovanni Moleri


Costruire una rivista teatrale non è semplicemente costruire uno strumento per poter parlare di sé o di ciò che ci  interessa, costruire una rivista teatrale è innanzi tutto pensare a un punto di osservazione eccellente con cui guardare, pensare e valutare la realtà. A maggior ragione se questa rivista tratta di teatro. A maggior ragione perché, nonostante il teatro viva ormai da tempo in uno stato comatoso, esso, e solo esso in modo quasi autentico, è in grado di mostrare, giudicare, far partecipare in un atto rituale, reale e vitale, a quell'altro mondo a cui la drammaturgia si ispira e che le relazioni che il teatro mette in moto fanno emergere. Così una rivista teatrale diviene il luogo di rappresentazione dello stato sociale in cui, non solo l'evento teatrale, ma la stessa relazione umana si svolge proprio in quell'istante in cui essa viene eseguita. Quell'istante a cui viene dato il nome di rappresentazione teatrale.


La rivista allora dovrebbe divenire il luogo privilegiato di osservazione della nostra società perché si obbliga in modo antropologico e sociologico a guardare il “perché” dell'evento e in pari tempo a ritrovare lo stato culturale in cui esso avviene. Proprio per questo forse, una rivista teatrale in particolar modo, che ha come orizzonte quello di capire, spiegare e comprendere i soggetti che vivono nel sociale e che si rappresentano attraverso le dinamiche teatrali, necessita anche di prendersi la responsabilità del fondamento pedagogico, andando a riscoprire, indicare, proporre un proprio senso delle cose, dell'esistenza, del fare: proporre un universo in cui potersi ritrovare, non solo teatrale ma di presenze vive. Ma proprio perché si tratta di una rivista teatrale, essa pretende da se stessa innanzi tutto quella ritualità che il suo stesso oggetto per essere ha in sé. Pertanto, come il teatro diviene un luogo d'incontro vivo tra uomini vivi, anche se effimero, nell'istante in cui è partecipato, vissuto, fatto, così  anche la rivista pretende per sé la stessa ritualità.


La rivista Appunti di Teatro dunque dovrà essere innanzi tutto questo luogo d'incontro e di rappresentazione dell'esistenza perché darà e troverà spazio per tutte quelle voci, persone ed esperienze che siano in grado di mostrare e modificare in modo propositivo la stessa realtà.


Il destino che vorremmo dare a questa nuova rivista teatrale ci sembra lo stesso destino che attende l'evento teatrale in questo nuovo secolo e in questo nuovo millennio, quello di ritrovare l'uomo e le sue più alte aspirazioni per condurlo al possibile centro di quel senso che tanto lo attende e che tanto lui cerca.


Il teatro, che fin dalle origini era fortemente spirituale e che per questo arrivava dritto al cuore di interi popoli, oggi, mentre banalizza i suoi contenuti, duplicando e copiando la realtà violenta e vuota, porta comunque con sé un alto grido: il grido che si innalza da tutta la vicenda umana, quello di poter vedere e vivere nella quotidianità un possibile mondo nuovo che ogni cuore reclama e desidera, per sé e per tutta l'umanità.


Se Appunti di Teatro non fosse questo, sarebbe un'altra cosa inutile tra cose inutili e allora non varrebbe la pena.


A tutti voi che ci leggete in questo “numero zero” chiediamo pertanto di contribuire, prestandoci la vostra voce non solo per sostenere ma soprattutto per far parlare questa possibilità. Oltre che per noi vorremmo costruirla anche per voi.

"Non nasce teatro laddove la vita è piena, dove si è soddisfatti. Il teatro nasce dove ci

sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti... E' lì che qualcuno ha bisogno di stare ad

ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dire a lui." - Jacques Copeau -